Arpepe

Negli anni in cui Carducci frequentava la Valtellina e si lasciava ispirare dai suoi rossi, sui rilievi del Grumello appena a nord di Sondrio, Giovanni Pelizzatti e i suoi familiari risalivano già le scalette di collegamento tra i ripiani della Chiavennasca. Quella dei Pelizzatti era già allora una famiglia indigena di viticoltori. Non si sa da quanto tempo lo fosse: nel succedersi delle generazioni la memoria storica è andata vacillando sempre più. Ma una prova documentaria c’è: uno di quei fogli che finiscono negli scatoloni della carta importante, quella da conservare con cura “che non si sa mai”. A custodirlo è stato Arturo Pelizzatti, il bisnipote di Giovanni; si trattava di un traguardo aziendale, celebrato nel 1960. Motivo del festeggiamento erano i cento anni di ininterrotte relazioni “enologiche” con un fedele cliente svizzero che, in barba ai cambiamenti generazionali, aveva continuato a rifornirsi dei vini Pelizzatti.
Dato che “carta canta” (la prova è una nota dell’epoca con esplicito riferimento all’anniversario), i discendenti hanno deciso di far coincidere l’avvio dell’attività vitivinicola dei Pelizzatti con l’anno 1860.

Dire che la Valle all’epoca vivesse di vino può forse risultare esagerato, ma non poi così distante dalla realtà. La Svizzera da tempo aveva rinunciato alla conquista territoriale, ma non ai rossi valtellinesi. Cosicché il figlio di Giovanni, Arturo Pelizzatti, nonno dell’Arturo che avrebbe poi festeggiato il centenario dell’azienda, consolidò la scelta economica. Diede continuità all’attività e fondò l’omonimo marchio trasmettendo, nella prima metà del Novecento, le sue competenze al rampollo Guido. Terminata la guerra, il successore sentì dentro di sé un forte richiamo imprenditoriale. I Pelizzatti nel contesto della Valle avevano già un posto di tutto rispetto tra i “grandi” della vite. Ciò nonostante Guido optò per un ulteriore ampliamento. Dalla sua cabina di regia coordinava le consegne dei numerosi conferitori locali e teneva d’occhio i vigneti che potevano finire sul mercato. Il patrimonio vitato salì fino a cinquanta ettari di proprietà e, almeno sulle terrazze del Grumello, si stava trasformando in qualcosa di più di un oligopolio. Man mano che l’espansione si realizzava, la mente di Guido s’incanalava verso un nuovo obiettivo: ripensare la complessa situazione delle cantine. Fino agli anni cinquanta il punto di riferimento era il sito di zona Scarpatetti, quartiere popolare nel pieno centro storico di Sondrio.

Col tempo si fecero sentire sia le difficoltà di accesso sia la scarsità di spazio. Per i lunghi affinamenti in botte Guido era costretto ad affittare vari scantinati sparsi per il centro cittadino. Finché si delineò la soluzione: la costruzione di un’unica grande cantina ricavata nelle rocce del Grumello. All’esterno l’uva cresceva, all’interno il vino riposava. Creata dentro alla montagna, la cantina Pelizzatti sorse al di sotto di una delle scarpate vitate più cospicue dei dintorni di Sondrio, tra la medievale fortezza De Piro o del “Grumello” (“grumus” in latino èl’altura) e l’area del “Buon Consiglio”, oggi non lontana dalle abitazioni di Sondrio. Guido la volle inaugurare in occasione della vendemmia del 1961.

L’anno dopo, il suo unico figlio maschio compiva vent’anni. Guido lo aveva chiamato Arturo proprio come suo padre, il fondatore del marchio Pelizzatti. Al di là della continuità dei nomi degli avi c’era la forte speranza che i Pelizzatti seguitassero a vivere di vino. Ma il nuovo Arturo non era soltanto un Pelizzatti: al cognome paterno si era deciso di aggiungere anche quello materno. Nacquero i Pelizzatti Perego.

Arturo aveva osservato attentamente il lavoro di quegli anni. In lui si formarono radici profonde e testarde, di quelle che non si fermano neanche davanti ai terreni più duri. Aveva trent’anni e una determinazione da vendere, nata dal vino e per il vino. Nel 1973 nacque il suo secondo figlio a cui era stato dato, seguendo l’insegnamento del padre, il nome Guido. In quello stesso anno il nonno si ammalò e nel mese di dicembre morì.

A causa di contrasti famigliari legati all'eredità, l'unico rimedio, che causò anni di sofferenza ad Arturo, fu quello di vendere. Un colpo di spugna e il marchio Pelizzatti non era più dei fondatori. Fu ceduto con le cantine a Winefood, gruppo a capitale svizzero-americano che acquisì in conduzione anche le vigne. Forse, però, la sofferenza più grande doveva ancora arrivare.

Arturo non lasciò fisicamente i suoi vigneti, continuò a seguirli alle dipendenze di Winefood. «Era il suo lavoro, che altro poteva fare? Per lui era stato individuato il ruolo di responsabile della produzione, ma di fatto non riuscì mai a ricoprire quell’incarico come voleva». Isabella evoca un padre coerente con le proprie idee, colpito nella sua più grande passione ma non privato della dignità. «Fu costretto ad assistere passivamente allo sconvolgimento delle sue idee di viticoltura e a vedere compromessa la stessa fama dei vini Pelizzatti, presto diventati prodotti di massa senza più rispettare, ad esempio, alcun rigore nell’affinamento». La rivoluzione moderna era giunta anche in Valle. E nel confronto con il nuovo mercato, i vini di Valtellina finivano nel calderone generale faticando a farsi riconoscere.

A quel punto l’unica strada percorribile sembrò l’abbandono del mondo del vino. Arturo ci provò: lasciò il suo impiego da Winefood e cercò altro. Ma non poté ingannarsi. Nel 1983 mise in atto il suo piano: riprendere possesso dei vigneti e tornare a riempire le cantine sparse nel centro di Sondrio. Winefood nel frattempo non se l’era passata troppo bene e nelle sue vigne c’era un nuovo arrivato, niente meno che il Gruppo Italiano Vini. Arturo rimise assieme una discreta superficie di vigneti e rientrò in possesso anche delle cantine utilizzate per l’affinamento al “Buon Consiglio”, sotto ai vigneti di Grumello.

Isabella rivive nel racconto le tante peripezie. «Non è stato facile, anche perché non sono mancati i tentativi di ostacolare l’impresa». Nel 1987 le cantine volute da papà Guido diventarono nuovamente il quartier generale della famiglia Pelizzatti Perego. Serviva però un nome, perché il marchio di famiglia restava in mani altrui. Si fece ricorso alle iniziali del fondatore: l’azienda diventò ArPePe. A quale Arturo riferirsi? Da una parte il padre di Guido aveva fondato l’azienda, dall’altra il nipote l’aveva fatta rinascere. Ognuno può liberamente interpretare.

Riprendere non è uno scherzo. C’è da lavorare sul fronte della credibilità. Arturo, di fronte a questa sfida, mette in campo tutta la tenacia delle sue convinzioni. È disposto al rischio, ma non al compromesso e, al di là di ogni presunzione, si mostra sicuro di sé e rigido verso ogni condizionamento esterno. Per questo le sue idee sono bollate come eresie enologiche. Attraverso la sua nostalgica cocciutaggine, Arturo mira al superamento dell’idea di mediocrità dei vini valtellinesi, al ritrovamento della loro anima perduta e del legame con la terra madre. Il perno della logica di produzione del vino valtellinese sta, secondo Arturo, nel giusto tempo di attesa. A questo “giusto” il Pelizzatti Perego dà una forte connotazione personale. Tant’è che, anche in famiglia, c’è chi, come la moglie Giovanna, confessa di essersi talvolta spaventata dei “tempi ideali” di Arturo.

Per sei anni consecutivi i terrazzamenti a nord di Sondrio producono e per sei anni il vino entra nelle botti del “Buon Consiglio”, senza che ne esca una sola bottiglia. Per le prime vendite del Sassella Rocce Rosse bisogna attendere fino al 1990. Qualcuno può aver pensato a una sorta di gelosia, un atteggiamento possessivo nei confronti dei propri vini. Il tempo è realmente la via migliore per fare emergere le potenzialità del terroir? Il “purista” Arturo ha dato la sua risposta con i fatti. Aspettando e difendendo l’integrità del Nebbiolo, scartando la dolcezza dei passiti, chiudendo le porte alle mode. Così Arturo è diventato un viticoltore anacronistico, bersaglio di facili frecciate da parte dei colleghi più sensibili alle esigenze del marketing. Impossibile, per di più, accettare e comprendere un simile immobilizzo di capitale, che ritardava il profitto e faceva schizzare in alto il prezzo finale della bottiglia. Tuttavia in casa Pelizzatti Perego non c’era intenzione di trattare con i modernisti, c’era piuttosto il pensiero di recuperare un credito perduto, peraltro in un clima di confusione tra i due marchi di famiglia. Di questi, il più antico, finito nelle mani del Gruppo Italiano Vini, non sarebbe rientrato a casa. I Pelizzatti Perego, invece, erano tornati.

Passano venti anni dalla nascita di ArPePe e trenta dalla morte di Guido; Arturo non è più solo. La quinta generazione “viticola” dei Pelizzatti Perego è pronta a entrare in un’azienda avviata verso la graduale riconquista degli spazi perduti. I figli di Arturo, Isabella, Guido ed Emanuele, decidono di affiancare papà nella conduzione aziendale. Arturo ha poco più di sessant’anni e ancora tanta esperienza da tramandare. Ma nel 2004 il suo tempo è scaduto. Come papà Guido, anch’egli scompare a dicembre. ArPePe è privato del suo fondatore. Ma tiene ben stretto il ricordo del suo esempio.

Di vigneron così come di uomo.

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